L’enneagramma è un simbolo attraverso il quale possono essere lette le leggi che governano l’essere umano e l’universo.

L’Enneagramma ha poco a che vedere con la psicologia. Ciò di cui si parla è meccanica. Le nostre vite sono assoggettate a una serie di meccanismi di causa ed effetto di cui per la maggior parte del tempo non siamo consci. Colui che osserva questo processo non può fare a meno di volersene liberare: è per questo che serve osservarsi.
«Dov’è la mia libertà se in risposta agli eventi della vita reagisco in una maniera dettata dalla mia personalità, illudendomi di aver effettuato una scelta imparziale?».
In realtà non esiste nessuno studio chiamato “Enneagramma”. Enneagramma è il nome di questa figura a nove punte sulla quale convergono due principali insegnamenti:
– L’Enneagramma delle Personalità, il più noto, il quale prevede la suddivisione delle personalità in nove principali tipologie con le rispettive luci, ombre e possibilità evolutive;
– Gli insegnamenti di Gurdjieff, o Quarta Via, il più antico e meno noto, un sistema di conoscenza di sé ricco, profondo, senza eguali nella sua capacità di intercettare il concreto bisogno di risveglio dalla vita quotidiana dell’essere umano di oggi, che vive ipnotizzato, distante dal suo vero essere.
Queste due scuole danno il meglio di sé quando convergono in uno studio unico, volto al raggiungere una nuova comprensione di sé.
La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe.
Ciascuno ne raccolse un pezzo e vedendo in esso riflessa la propria immagine,
credette di possedere l’intera verità.
Jalāl ad-Dīn Rūmī
Gli abitanti della Terra assumono nove principali forme, una sorta di grezzo da cui il piombo può essere tramutato in oro.
L’Enneagramma delle Personalità ci accompagna lungo questa trasformazione: da una vita che “accade”, ad una vita che desideriamo. Dalle nostre qualità sopite alla loro espressione genuina e autentica.
Pensiamo che il nostro pezzo di specchio sia sufficiente per potere cogliere l’interezza dell’esistenza, ma, finché non ci arrenderemo all’idea di essere parte di un tutto, continueremo a vivere nell’illusione.
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La personalità è il risultato di ciò che abbiamo accumulato dall’esterno. Quest’accumulo ricorda molto una bottega dell’antiquariato dove, in un grande disordine, sono accatastati ricordi di ogni tipo e di cui ci siamo dimenticati la provenienza. Per scoprire l’origine di quanto vi troviamo, possiamo mettere l’attenzione sul particolare gusto del bottegaio. Intorno ad ogni essenza, infatti, si è costituita una personalità più o meno corrispondente.
Ma da dove nasce l’essenza, da dove inizia la personalità? Per la prima è difficile dare una risposta, ma è ragionevole ritenere che sia comparsa nella pancia della mamma, dove i suoi geni e quelli del papà hanno prestato la materia in cui permettere a quel particolare tipo di qualità essenziale, unica e irripetibile, di manifestarsi.
Riguardo alla personalità riusciamo invece a essere molto più precisi. Un bambino che, inerme, si affaccia per la prima volta alle situazioni della vita si ritrova privo delle istruzioni necessarie per cavarsela in un mondo a lui sconosciuto. È così che inizia a imitare gli adulti e questi non esitano a istruirlo sui come e i perché di una realtà che è la naturale estensione della corazza che usiamo per proteggerci.
La nostra essenza, infatti, è troppo tenera per la vita. Non conosce i concetti di spazio, di tempo, di sopravvivenza, di territorio. Ha bisogno di qualcuno che la protegga, e quest’armatura è la personalità. Ecco dunque che il bambino impara stratagemmi per ottenere più attenzione, più giocattoli, più amore. Impara a imitare gli adulti. Scopre quali sono i metodi ottimali per far fronte alle sue paure: che si tratti della separazione dai genitori, del timore di rimanere senza un tetto sopra la testa o del non essere preso in considerazione.
Va da sé descrivere la personalità come un adattamento all’ambiente, il che implica per forza di cose il sacrificare in buona misura la propria individualità. Nasce come interfaccia con il mondo esterno.Come una persona che guardando un film dimentica tutte
le preoccupazioni della giornata, col passare degli anni il bambino diventato adulto si dimentica del perché abbia iniziato a imbottirsi di tutte queste protezioni. Quest’interfaccia, quindi, sarà estesa ad ogni aspetto della sua vita, compreso quello della sua interiorità.
Nel tempo, insomma, il protettore diventa un carceriere. Le sbarre della cella avranno la veste di garanzia per la sopravvivenza e le chiavi daranno fastidio alla vista del prigioniero a tal punto che egli non vorrà più vederle per alcun motivo.
Passeggiando, un signore incontrò Mullah Nasreddin che cercava qualcosa per terra.
«Cosa andate cercando?», domandò.
«La mia chiave», rispose.
Il passante si inginocchiò e si mise ad aiutarlo. Passato un po’ di tempo durante il quale non vi era stata traccia dell’oggetto, chiese: «Vi ricordate dove l’avete persa?»
«Certamente», rispose tranquillamente Nasreddin, «a casa mia».
«Ma perché dunque la cercate qui?».
«Perché qui c’è più luce».
L’essenza è come una ferita ricoperta da tanti cerotti. La sentiamo perché ci dà fastidio. Noi vediamo solo la medicazione e non capiamo come mai continui a farci male. Dunque mettiamo sempre nuove pezze, ma non abbiamo mai il coraggio di far luce dove c’è buio, dove c’è la ferita che pulsa. Potrebbe farci molto male, oppure abbiamo paura di non trovarci nulla o che ciò che c’è sotto non ci piaccia.
Proprio per questo motivo a noi piace cercare dove c’è luce. Abbiamo la tendenza a porre sempre le stesse domande e a darci sempre le solite insoddisfacenti ma (temporaneamente) tranquillizzanti risposte. Così non facciamo altro che ispessire questa cortina che ci separa dalla nostra parte più genuina. Come mai anche quando tutto sembra andar bene ed esistono a nostro avviso ragioni oggettive per essere felici, continua a mancare qualcosa? Oppure come mai abbiamo paura di essere felici? Perché temiamo che qualcuno ci possa portare via questo stato?
Abbiamo costruito sulla sabbia. Alla prima folata di vento, tutto ci può essere portato via.
Non che la personalità sia qualcosa da gettare nel dimenticatoio e lasciar marcire (anche perché sarebbe impossibile). Va solo rivista con nuovi occhi. Perché e in che maniera farlo?
Partiamo dal presupposto che chi non conosce se stesso non ha la possibilità di raggiungere alcun risultato desiderato. D’altronde, come posso dire di volere veramente una cosa se non so chi sono, se cioè non so se quest’obiettivo è in accordo con i miei veri desideri? Gurdjieff diceva che il primo scopo di una persona che si mette a lavorare su di sé dev’essere diventare padrone di sé. Studiare la propria personalità, il proprio enneatipo, è un modo per osservare quali sono i nostri automatismi, i “bottoni” che la vita ci preme e a cui noi reagiamo solo con l’apparenza di una scelta.
Il solo osservare questi comportamenti meccanici già porta un cambiamento. Quale? Finalmente la possibilità di vederci con un minimo di oggettività e non con il solito filtro che indossiamo, per il quale un giorno siamo belli, il giorno dopo brutti.
In un secondo momento potremmo anche sentire l’esigenza di cambiare qualcosa e di effettuare un lavoro per il nostro sviluppo, per ambire cioè a una maggiore libertà.